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Aparigraha: l'arte di possedere solo ciò che serve
Scritto da Elena Cassinelli il 10 Settembre 2019
Aparigraha è l’ultimo degli Yamas di Patanjali.
La parola Aparigraha deriva dal sanscrito ed è formata dalla a, che è una forma di negazione “non”, pari significa invece “tutto attorno” , mentre “graha” significa “afferrare”. La traduzione letterale è quindi di non afferrare tutto ciò che ti sta intorno, il significato più sottile della parola è invece di possedere solo ciò che ci serve, ovvero di non essere avidi.
Il desiderio e la felicità
Uno dei grandi problemi della nostra epoca è l’incapacità di controllare i nostri desideri. I nostri sensi e la nostra mente sono costantemente bombardati da stimoli diversi, che creano desideri. Desideriamo avere una casa, un’auto, il telefono nuovo, l’armadio pieno di vestiti, desideriamo tanto fare quel viaggio di cui abbiamo visto le foto, desideriamo guadagnare di più, ecc ecc. Si potrebbe proseguire all’infinito.
Quando desideriamo fortemente qualcosa di materiale gettiamo le basi per la nostra infelicità. Il desiderio crea aspettativa e quando questa viene infranta, ci sentiamo subito inadeguati o frustrati. Oppure per soddisfare il nostro desiderio dobbiamo fare grandi sacrifici, vivere un presente che non ci soddisfa. Quando abbiamo finalmente raggiunto ciò che desideravamo, questo ci appaga per molto poco. Così ricomincia subito la corsa alla creazione di un desiderio e il suo soddisfacimento.
L’assenza di avarizia
Il concetto di Aparigraha si può estendere non solo a ciò che possediamo, ma anche alla nostra relazione con la natura. Negli ultimi decenni l’uomo ha sfruttato le risorse naturali e le altre specie animali, per un soddisfacimento di desideri del tutto egoistici. Aparighara ci insegna a essere riconoscenti e rispettosi dell’ambiente che ci circonda, a usare le risorse in modo responsabile.
Ci insegna anche ad un consumo responsabile. Spesso, solo per soddisfare i nostri desideri, arrechiamo danno alle altre persone, diventiamo egoisti e volgari, danneggiamo l’ambiente oppure noi stessi, costringendoci a vivere una vita infelice e proiettata al futuro (sarò finalmente felice quando avrò ottenuto questo).
Non c’è niente di male a soddisfare un desiderio, anche qualora questo non sia supportato da un bisogno, ma prima dobbiamo sempre riflettere prima di agire. Su questo punto ci aiutano gli Yamas precedenti: l’ahimsa – soddisfacendo questo desiderio provoco danno a qualcuno/qualcosa?, satya– per ottenere ciò desiderio seguo il principio di onestà?, asteya – sto togliendo l’opportunità a qualcun altro di usufruire dell’oggetto del mio desiderio? e infine brahmacharya – sto semplicemente assecondando i miei sensi e il mio ego?
Aparigraha è quindi l’assenza di avarizia, l’assenza del desiderio di possedere le cose. E’ la rinuncia ad acquisire beni perché si riescono a definire in anticipo le complicanze legati al possesso: la fatica di acquisirli, la preoccupazione nel conservarli, la delusione nel vederli svanire.
Aparigraha e lo Yoga
Nella pratica di Yoga, aparigraha si traduce nel rispetto del nostro corpo e dei nostri limiti. E’ l’accettazione di quello che riusciamo a fare, senza desiderare la perfezione o di fare la posizione come il nostro vicino di tappetino. Accettazione non vuol dire rassegnazione. Accettare il corpo e i suoi limiti significa riconoscerli, onorarli, sono ciò che ci rende unici. Lo Yoga ci insegna che nulla è permanente e che tutto muta, ci insegna ad accettare il presente così com’è, cambiando ciò che possiamo cambiare e lasciando scorrere ciò che per noi è impossibile da modificare. Accettiamo l’imperfezione della nostra pratica, con la consapevolezza che ci sarà sempre spazio per migliorarsi!
Namasté ;)
(Image via https://www.loveyourbrain.com)
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