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Svadhyaya: l'essere eterni studenti

Scritto da Elena Cassinelli il 08 Aprile 2020

Il viaggio sul percorso degli otto petali dello Yoga di Patanjali ci porta, dopo Tapas, ad affrontare Svadhyaya ovvero lo studio di noi stessi e dei testi sacri.

Svadhyaya e lo studio dei testi sacri

Sebbene oggigiorno la letteratura alla base della filosofia dello Yoga sia largamente sottovalutata nella formazione di nuovi insegnanti, essa è fondamentale per capirne la sua natura. Infatti, se spogliamo la pratica di tali insegnamenti, del suo lato filosofico e spirituale, la riduciamo a una mera ginnastica. Così facendo, si perde gran parte del suo valore, anche terapeutico. Si vanificano gli studi compiuti per millenni da grandi Maestri che, grazie a una profonda comprensione della realtà, ci hanno fornito gli strumenti per rispondere alle questioni filosofiche che caratterizzano l’uomo moderno.

Lo studio dei testi sacri, ma anche lo studio di tutti quei testi che ci conducono verso la liberazione e verso una maggiore comprensione della realtà che ci circonda, è quindi fondamentale. Tuttavia, si considera benefica ogni lettura di approfondimento sugli asana, sulla storia e sulle pratiche spirituali che riguardando la disciplina dello Yoga.

In generale, Svadhyaya è un invito a rimanere sempre curiosi. Ad accettare insegnamenti da ogni persona che incontriamo sulla nostra via e da ogni situazioni che affrontiamo. E’, infine, un invito, all’umiltà a non considerarci mai “arrivati”, ma a mantere un sano stato mentale di apertura.

Svadhyaya e lo studio di Sé stessi

Attraverso lo studio dei testi si procede anche alla comprensione e allo studio del Sé – nostra parte divina, immortale. Tuttavia, possiamo espandere il concetto di Svadhyaya anche allo studio del sé, ovvero dell’ego, di quella nostra parte che si identifica con il corpo e i pensieri. Infatti è lecito pensare che se diventiamo consapevoli di cosa non siamo, possiamo poi progredire nella comprensione di ciò che siamo.

Quando ci spogliamo quindi di ogni convinzione culturale e pregiudizio, diventiamo consapevoli di chi siamo realmente, di cosa ci piace fare, dei nostri gusti e di ciò che non ci piace o ci danneggia, ci avviciniamo sempre di più alla nostra vera natura, al nostro vero Sé.

Svadhyaya sul tappetino

Come tutti i Nyama e Yama, anche Svadhyaya ha una connessione con la pratica più fisica dello Yoga. Infatti come noi ci approciamo agli asana, come pratichiamo Yoga è un riflesso di come affrontiamo la vita.

Quando ci mettiamo sul tappetino per praticare siamo soli con noi stessi ed è un ottimo momento per osservarci senza disrazioni (TV, telefono, ecc). La lezione di Yoga diventa l’opportunità perfetta per ascoltare il nostro corpo e cerchiamo di captarne il linguaggio: dove stiamo trattenendo le tensioni? quali sono le sensazioni che proviamo nel nostro asana preferito? Anche il respiro ci mette in contatto con i nostri stati d’animo, sappiamo che se il respiro è morbido, fluido e profondo la mente è stabile e tranquilla, se il nostro respiro è affannosso probabilmente dobbiamo allentare l’asana che stiamo eseguendo.

Inoltre lo studio de Sè non può avvenire se non attraverso un percorso meditativo costante. Cerchiamo di trovare sempre il tempo per la pratica della meditazione durante la nostra pratica personale e non svalutiamone l’importanza durante la pratica con il nostro insegnante.

Namastè.

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Che cos’è un mantra?

Image via https://indiyogastudios.com/